martedì 6 settembre 2011

Mino Martinazzoli: il "mio" Segretario.

Con la scomparsa di Mino Martinazzoli il cattolicesimo democratico ha perso un altro punto di riferimento.
E sarebbe, ora, un errore considerare superato, obsoleto, il patrimonio di insegnamenti trasmessoci da una ricca tradizione che annovera testimonianze mirabili come quelle - oltre che dello stesso Martinazzoli, tra gli altri - di Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Benigno Zaccagnini e (perché no?) di Gilberto De Nitto.
Restano scritti e frammenti della memoria che potrebbero rappresentare la pietra angolare nella costruzione di un nuovo tessuto della democrazia italiana. Contributi come quello - per richiamare un contemporaneo - di Giovanni Bachelet che, ai funerali del padre Vittorio (presidente dell’Azione Cattolica Italiana e vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura assassinato dalle Brigate Rosse), prega “per gli uomini che hanno ucciso il mio papà”: una pagina della storia della nostra Repubblica che sarebbe salutare rileggere oggi, mentre nei palazzi delle istituzioni trovano accoglienza e solidarietà anche i più squallidi ricattatori.
In una delle sue ultime interviste, Mino Martinazzoli aveva ricordato: “una volta, nel ’94, incontrai Berlusconi e cercai di spiegargli che fare politica significa fare gli interessi degli altri, non i propri”. E fu proprio Martinazzoli, sempre nel 1994, a far saltare l’ipotesi di una alleanza tra Berlusconi, la Lega ed il Partito Popolare Italiano (come fu ribattezzata la Democrazia Cristiana prima delle elezioni politiche di quell’anno), poiché, ebbe ad affermare, “vincere non vale a nulla se l’anima è il prezzo della vittoria”.
Da quel modo di essere della politica, e da quel modo di fare la politica, ci si sente oggi lontani anni-luce.
Mino Martinazzoli è stato “il mio” Segretario. Si, perché io ho aderito alla Democrazia Cristiana quando lui ne era appena stato acclamato quale massimo dirigente, nel 1992: proprio l’anno del declino!
L’anagrafica non mi avrebbe consentito di aderire prima, a quel Partito – Società, Partito – Stato, Partito – Paese, di cui, appena diciottenne, anche io avvertivo il travaglio, l’approssimarsi ad una ineludibile trasformazione coincidente con quella della stessa società italiana ormai “libera” dalla morsa della contrapposizione tra i “due blocchi” politici planetari.
Aderii dunque a quel Partito quando ormai non era più “di moda” farlo ma ammetto che, in quel generale disorientamento degli scenari politici nazionali, fu proprio Mino Martinazzoli a suscitare la mia fiducia, a contagiarmi in un ragionamento sulle azioni possibili nel contesto di scenari da ridisegnare. Al tramonto di un’era, occorreva non rinnegare una storia e contribuire, in coerenza con i propri principi e valori, a realizzare una improcrastinabile trasformazione.
Martinazzoli è stato un uomo colto, dotato della onestà intellettuale necessaria a non nascondere l’inquietudine del dubbio, un galantuomo che ha saputo assumersi sino in fondo la responsabilità di “dare sale” al dibattito politico riconducendo sistematicamente le passioni nel solco di una finalizzazione comunitariamente edificante (“i moderati non esistono in natura, valori e interessi non possono esserlo, è la politica che dovrebbe moderarli”).
Dalla sua Brescia, Martinazzoli aveva intuito, prima di ogni altro, la necessità di dare vita ad una “Democrazia Cristiana del Nord” e, con la consueta pacatezza, ne aveva spiegato le ragioni: “perché là dove la società è più forte, più strutturata, più rivendicativa dei suoi diritti, e meno interessata ad essere sostenuta dal braccio soffice dei Partiti, c’è bisogno di costruire una politica con una sua autonomia rispetto al Partito centrale”. Non se ne fece nulla, anche se l’idea meritava almeno di essere sviluppata, e la Lega crebbe, fino a dilagare. Quando, assumendosi colpe di miopia politica non sue, nel 1993, si trovò a sfidare la Lega nelle piazze del Nord, Martinazzoli lo fece senza risparmio, pur percependo sin dall’inizio come poi sarebbe andata a finire (“non toglieremo il disturbo”, tuonò a Legnano), fedele all’insegnamento del “suo” Thomas S. Eliot: “per noi non c’è che il tentare / il resto non ci riguarda”. E di quella frase, Martinazzoli valorizzava il senso della più ostinata irriducibilità.
Al di là dei numeri.

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