Il risultato delle elezioni primarie del centrosinistra svoltesi domenica scorsa a Palermo ha determinato una serie di reazioni da parte degli esponenti nazionali delle forze politiche della coalizione: ciò alla luce della affermazione di un outsider, ovvero un candidato non sostenuto dai principali apparati di Partito.
Questa esperienza merita qualche riflessione, peraltro in considerazione della circostanza che il tema delle primarie di coalizione ha già fatto capolino anche nell’ambito del centrodestra.
Ritengo che in uno scenario bipolare - o comunque improntato al riconoscimento di una premialità per le maggioranze, allo scopo di favorirne la stabilità nei vari livelli di governo della Cosa Pubblica - le primarie rappresentino un utile strumento di raccordo tra la “necessità” di semplificare il quadro politico e la “virtù” della salvaguardia delle diverse sensibilità in campo.
Ed è bene, dunque, che le forze politiche che siano interessate a realizzare ampie coalizioni si sottopongano, nell’ottica della preventiva individuazione di una sintesi tra componenti alleate, al vaglio del proprio elettorato di riferimento.
Ciò vale anche nei contesti locali.
Qualora si intenda scongiurare l’affermazione di outsiders, eludendo tale passaggio democratico (che prima o poi credo debba pure essere disciplinato dal legislatore italiano), occorre, dunque, assumersi la responsabilità di presentarsi frammentati all’elettorato, con le probabili, conseguenti, difficoltà a ritrovare condizioni di dialogo sereno e costruttivo solo dopo l’apertura delle urne.
Altro discorso, ovviamente, vale se le coalizioni tradizionali non sono “includenti”: in tal caso, soprattutto negli ambiti locali, le aggregazioni civiche possono trovare sintesi programmatiche efficaci su cui far convergere (a conferma della crisi di rappresentanza che caratterizza sempre più spesso questa cosiddetta “Seconda Repubblica”) il consenso della maggioranza dell’elettorato.
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