Come formulare auguri “pubblici” in questo tempo carico di ansie e di incertezze, quando anche chi avverte la responsabilità del suo essere, almeno un po’, “pubblico” non riesce ancora a scorgere un bagliore di alba nell’imbrunire in cui ci siamo cacciati?
La percezione di inadeguatezza non preclude tuttavia la possibilità di mutuare le ispirazioni dai “grandi veri”, da chi sa, o seppe, farsi sia faro sia sentinella per la comunità.
Il poeta Mario Luzi (1914 – 2005), nella sua lirica “Siamo qui per questo”, scritta alla fine del 1997, si richiama a Giorgio La Pira, sindaco di Firenze dal 1951 al 1958 e poi ancora dal 1961 al 1965, con queste parole: “levò alto i pensieri, stellò forte la notte…”.
Quando ormai l’omologazione culturale rischia di prendere il sopravvento, quando la superficialità assurge a cifra di ogni approccio, quando mollare tutto sembra più ovvio che resistere, “levare alto i pensieri” è forse una delle missioni di noi uomini d’oggi: significa andare controcorrente; significa non avere paura di sognare contromano; significa agire nel tessuto profondo dello stare insieme, dell’essere “comunità”.
“Stellare forte la notte” è il tema biblico di Isaia, che ha ispirato generazioni di pensatori e di artisti, fino alle vibranti parole con cui ci ha lasciati Giuseppe Dossetti (“Sentinella quanto resta della notte?”, alla commemorazione di Giuseppe Lazzati, nel 1994).
Forse oggi non siamo chiamati soltanto a raccontarci, a lamentarci, a dirci le cose che non vanno, quanto, piuttosto, a stellare forte la notte. Forse dobbiamo cambiare, per essere finalmente noi stessi, nel tempo che ci è dato. Forse abbiamo bisogno di uscire dal chiacchiericcio e dalla lamentazione in cui, comodamente, ci costringiamo. Proviamo, allora, a stellare forte la notte. Sforziamoci di avvertire, ciascuno nel piccolo del suo quotidiano, questa missione e questa responsabilità: è improbabile che, così facendo, si possa far andare le cose peggio di come sono andate fino ad oggi. Forse, anzi, andrà meglio: perché più laboriosità non ha mai fatto male a nessuno. Almeno riacquisteremo dignità verso noi stessi e verso la nostra storia, in questo tempo, per noi irripetibile, che ci è dato di vivere.
Non vado oltre, perché tengo a formulare, a tutti, gli auguri di ogni bene, comunicando semplicemente il mio sentire e l’auspicio di un domani migliore.
E chiudo, allora, riportando un frammento, illuminante, di un celebre discorso (dal titolo: “Per la salvezza delle città di tutto il mondo”), tenuto da Giorgio La Pira, al Convegno dei Sindaci delle città capitali di tutto il mondo, il 2 ottobre 1955 a Firenze.
«La crisi del nostro tempo - che è una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è veramente umano - ci fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e risolutivo che in ordine ad essa la città possiede. Come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. E prima di finire questo discorso sul valore delle città per il destino della civiltà intera e per la destinazione medesima della persona, permettete che io dia un ammirato sguardo d'insieme alle città millenarie, che, come gemme preziose, ornano di splendore e bellezza le terre dell'Europa e dell'Asia. Signori, ci vorrebbe qui, per parlare di esse, il linguaggio ispirato dei profeti: di Tobia, di Isaia, di Geremia, di Ezechiele, di San Giovanni Evangelista. Per ciascuna di esse è valida la definizione luminosa di Pèguy: essere la città dell'uomo abbozzo e prefigurazione della città di Dio.»
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