martedì 15 marzo 2011

Italiani del Sud

La ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia è anche occasione per ricordare i vinti, ovvero coloro che non furono con “i piemontesi”. Ed oggi, quando ormai l’unità è valore acclarato - nella consapevolezza che una grande Patria sappia restituire verità alla sua Storia e che non abbia bisogno dell’onta su alcuni suoi figli per farne grandi altri (perché, peraltro, questi ultimi, grandi lo furono senza necessità di confronto) - merita almeno un approfondimento la vicenda che accomunò quegli uomini del Sud che diedero vita al fenomeno del Brigantaggio.

Di loro si sono occupati in tanti, da Antonio Gramsci a Benedetto Croce, da Alessandro Dumas a Leonardo Sciascia e Raffaele Nigro.

Ora però noi italiani meridionali abbiamo il dovere di offrire ai briganti un tributo di memoria popolare diffusa.

Certo, il brigantaggio è stato fenomeno complesso.

Fu guerra civile, quella combattuta, anche nelle nostre contrade, nel primo decennio dopo l’unità d’Italia?

Molti storici sostengono che il brigantaggio nacque anche da un moto di disperazione, come protesta della miseria contro antiche e nuove ingiustizie.

Mack Smith, ricordando quanto riportato dai meridionalisti, sottolinea che agli occhi dei contadini il brigante diventava un simbolo delle loro aspirazioni frustrate, il vendicatore dei torti da loro subiti: egli era non più l’assassino, il ladro, l’uomo del saccheggio e della rapina ma piuttosto colui che aveva forza sufficiente per ottenere per sé e per gli altri quella giustizia che la legge non riusciva a dare.

La fine del regno delle Due Sicilie aveva rappresentato pure quella della elementare economia di sussistenza, che consentiva anche ai più diseredati di sopravvivere: i poveri si erano ritrovati ancora più poveri con i liberatori che avevano cominciato con l’imporre tasse e servizio militare obbligatorio.

Queste novità si intrecciavano con vecchi motivi di scontento a cominciare dalla questione demaniale (risolta solo diversi decenni più tardi, agli albori della Repubblica) e dall’aspirazione alla terra sempre promessa, mentre una parte notevole della nobiltà (anche gli stessi Borboni) e della borghesia, ambiguamente, assicurava appoggio ed alimentava vane illusioni.

Ecco, allora, qui di seguito, un piccolo contributo: un brano tratto da “Brigantaggio tramontato”, un libro di Abele De Blasio pubblicato a Napoli nel 1908 e ristampato da Capone editore nel 2001 (“Storie di briganti”) con la presentazione di Gianni Custodero.

Il passo che propongo narra della cattura del brigante Carmine Crocco, tradito da un suo uomo, Giuseppe Caruso, tipico esempio di “pentito” premiato poi con la nomina a brigadiere delle guardie forestali.

Giuseppe Caruso, per le sue buone qualità brigantesche, ben presto si attirò la simpatia del suo capo Carmine Donatelli Crocco, che lo elevò al grado di sottocapo; ma un bel giorno Zi-Beppe, così era chiamato il Caruso, in luogo di eseguire gli ordini di Crocco, si staccò dalla comitiva e andò a costituirsi al generale Fontana, che trovavasi in Rionero.

Per i suoi precedenti la giustizia di Potenza regalava al Caruso sette anni di lavori forzati.

Mentre si trovava in carcere, per ottenere la libertà, si offerse di voler fare la spia alla banda Crocco.

Questo suo desiderio lo fece esprimere al Pallavicini, il quale, a sua volta, fece venire innanzi a sé l’ex bandito per prendere gli opportuni accordi.

Zi-Beppe così disse al generale:

«La banda Crocco continua a desolare colle sue gesta i paesi del circondario, e non sarà facile poterla distruggere; poiché il capo è assai destro e scaltro, e, quello che più vale, conoscitore dei più minuti nascondigli di queste numerose boscaglie. Io, che fui già colla banda Crocco, ed ebbi ad abbandonarla per grave contesa, corsi ora, nel carcere, pericolo di morte per opera della stessa sua mano, onde voglio vendicarmi di questo infame attentato. Domando a Lei, quale capo delle truppe della zona, di venire utilizzato alla caccia dei briganti.

Libero di me, io vorrei non dico esser soldato ma mettermi a guida delle truppe per dirigerle nelle guerriglie contro i briganti, avere talvolta a mia disposizione pochi e valorosi soldati per scovare il Crocco e i suoi compagni nei loro ricettacoli, negli antri più nascosti delle selve e con una persecuzione costante, spietata ucciderli ad uno ad uno o costringerli ad una resa forzata».

[…]

Un giorno, a mezzo di denaro, seppe il Caruso da una spia di Crocco, creduta da costui incorruttibile, che il famoso brigante si trovava nel Castello di Lagopesole in attesa del risultato di un tentato riscatto verso un signore di Pietragalla.

Coll’autorizzazione del generale Pallavicini, il Castello fu circondato e i briganti, che si trovavano a bivacco, furono attaccati alla baionetta.

Dei briganti alcuni fuggirono verso il Bradano, dove andarono a finire nelle mani dei soldati, altri, che cercarono salire il torrente Salice, furono pure presi, e parecchi altri furono uccisi.

Crocco, per una grotta, si salvò.

[…]

Il Crocco, non trovando più pace per le continue persecuzioni, cercò imitare le spagnuolo Borjés col penetrare negli Stati pontifici e dopo disastrose marce riuscì a giungere salvo in Roma senonchè la fama sua di brigante feroce e brutale era nota alla Curia Romana, per cui Pio IX ebbe timore che il Crocco continuasse nel territorio papale le sue gesta brigantesche e credette utile chiuderlo in carcere.

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