Il vero problema dell’umanità - spiegava il filosofo Manlio Sgalambro (divenuto poi noto per la collaborazione con Franco Battiato) nel suo primo libro (La morte del sole) - non è più quello della sua origine ma della sua fine, verso cui sembra correre.
Ma in questa istantanea - come scattata da chi osserva, dal marciapiedi, una folla movente in strada - talvolta si distingue qualche originalità che, come quando si “cala” la pasta nell’acqua che bolle, cheta, distoglie da ogni automatismo, desta riflessione, ammirazione, e può finalmente nutrire invertendo, forse, l’inerzia degli accadimenti: sono le testimonianze eccezionali di persone normali, che diventano esempi ed eroi.
Penso ad Antonio Manganelli, quell’uomo che ha portato un cognome complicato per un Capo della Polizia e che è venuto a mancare - dopo aver conseguito onori e glorie, meritati - in un’età (62 anni) in cui non si dovrebbe ancora morire (se c’è un’età in cui la morte diviene ospite accettabile).
Manganelli è stato servitore dello Stato, persona seria, forte del suo senso della responsabilità, credibile per la volontà di incarnare le Istituzioni al punto da assumerne soggettivamente le colpe prodotte da errori di altri, collega leale, attento, sensibile.
Nel tempo della rivendicazione di tutte le libertà (anche quelle che non rendono liberi…) Manganelli, ligio al suo dovere, ha lavorato per assicurare agli italiani la “libertà dalla paura”, contribuendo alla nostra sicurezza.
Probabilmente senza accorgersene, ci ha lasciato una lezione di grande civiltà.
Penso anche a Pietro Mennea, che ci ha lasciati oggi, a 60 anni, ex velocista azzurro nato a Barletta, campione olimpico a Mosca 1980 e per 17 anni detentore del record del mondo dei 200 metri. Livio Berruti, medaglia d'oro nei 200 metri alle Olimpiadi di Roma 1960, lo ha ricordato così: «È stato un inno alla resistenza, alla tenacia e alla sofferenza. All'atletica italiana manca questa grande voglia di emergere e di mettersi in luce». In una intervista dello scorso anno per il Domenicale di Repubblica Pietro Mennea aveva ricordato così la sua infanzia: “noi non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri. Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel tragitto, porto ancora i segni sulle mani. Papà veniva da una famiglia di undici figli, due si erano fatte suore, non c'era da mangiare a casa. Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui. Oggi non mi entrano più, nemmeno al braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora crescere, sarebbero durate. La tv non la tenevamo, si andava al circolo degli anziani, era su un baldacchino, pagavamo 50 lire per vederla. Ce l'avevo la rabbia dentro, eccome".
A grandi uomini così, rimarremo sempre grati.
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