martedì 17 agosto 2010

Un Paese senza leader

Nelle ultime settimane ho ricevuto numerose e-mail che mi inducono a ritenere che esistano le condizioni per dare vita ad un dibattito destinato ad incidere sulla qualità della vita politica locale, anche attraverso il coinvolgimento attivo, in essa, di uomini e donne “nuovi”: non “nuovi” per la mancanza di esperienza; non “nuovi” per il vuoto ideale che esprimono; non “nuovi” per la incapacità progettuale che manifestano… ma “nuovi” per le competenze che hanno maturato nella loro vita professionale; “nuovi” per la lucidità di analisi e di visione prospettica; “nuovi” per le sensibilità affinate nell’ambito del loro percorso formativo; “nuovi” per la freschezza del contributo che possono apportare nell’ottica del bene comune.
Propongo qui di seguito, a tal proposito, per una comune riflessione, il testo della rubrica "Primopiano" del n. 33 di Famiglia Cristiana, uscito in edicola lo scorso 11 agosto.
Dedico questo post, e le considerazioni che da esso potrebbero scaturire, al Presidente Francesco Cossiga, un democratico cristiano, un cattolico liberale, un leader, uno statista vero.


Ha sollevato una grande bagarre la recente denuncia della Chiesa circa l’assenza in Italia di una classe dirigente all’altezza della situazione. In una stagione densa di sfide e problemi, essa lamenta un vuoto di leadership. In tutti i settori. La politica, anzitutto, non svolge la funzione che dovrebbe competerle. Ma analoghe carenze si riscontrano nel mondo imprenditoriale, nella comunicazione e nella cultura. Persino nella società civile e nell’associazionismo.
Mancano persone capaci di offrire alla nazione obiettivi condivisi. E condivisibili. Non esistono programmi di medio e lungo termine. Non emerge un’idea di bene comune, che permetta di superare divisioni e interessi di parte. Se non personali. Si propone un federalismo che sa di secessione. Senz’anima e solidarietà. Un Paese maturo, che deve mirare allo sviluppo e alla pacifica convivenza dei cittadini, non può continuare con uomini che hanno scelto la politica per “sistemare” sé stessi e le proprie “pendenze”. Siamo lontani dall’idea di Paolo VI, che concepiva la politica «come una forma di carità verso la comunità», capace di aiutare tutti a crescere.
L’opinione pubblica, sebbene narcotizzata dalle Tv, è disgustata dallo spettacolo poco edificante che, quasi ogni giorno, ci viene offerto da una classe politica che litiga su tutto. Lontana dalla gente e impotente a risolvere i gravi problemi del Paese. La richiesta della Chiesa di “uomini nuovi” trova ampi consensi tra la gente. Anche se non sono mancate critiche, da chi si sente nel mirino della denuncia. C’è chi ha parlato di mancanza di gratitudine, per il sostegno che una parte politica dà ai “valori irrinunciabili” e alle opere della religione. Soprattutto in un Paese difficile da governare. E refrattario a qualsiasi riforma di grande respiro.
Tra le reazioni più forti, c’è chi s’è chiesto da che pulpito venga la predica. Perché mai la Chiesa si chiama fuori dalle responsabilità? Non fa parte, essa stessa, della classe dirigente del Paese? E perché non guarda alle carenze di quel mondo cattolico fortemente intrecciato nelle vicende nazionali? Accuse solo in parte giustificate. Nel richiamare al senso del bene comune quanti occupano posti di alta responsabilità, la Chiesa è cosciente che anche il mondo cattolico deve fare la sua parte. E assumersi di più i ruoli che contano.
Da tempo, Papa e vescovi hanno lanciato l’appello: «Giovani politici cattolici cercansi». Per invitare i credenti più impegnati a misurarsi con il destino della nazione. In ruoli di grande responsabilità pubblica, così come sono ben presenti nel volontariato e nell’associativismo. Sono molte le figure autorevoli nella comunità ecclesiale. Tanto più queste cresceranno, tanto più se ne gioverà l’intero Paese. Ma la Chiesa è anche chiamata a valutare quanto, di fatto, i propri quadri più alti rappresentino dei punti di riferimento etico e spirituale per tutta la nazione.

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