Un’estate del dopo – Muro di Berlino e del poco prima – Seconda Repubblica.
Il convento dei padri Rogazionisti in Oria.
Fu mio padre ad accompagnarmi, a quelle “giornate” dei giovani democristiani della Provincia di Brindisi: forse voleva che ne annusassi l’aria, che mi ci affezionassi; o forse, quando già si presagiva il crepuscolo di un ciclo storico, voleva farmi saggiare le ultime boccate di quell’aria che lui stesso (ex sindaco ed amministratore comunale di lungo corso) aveva respirato, più di vent’anni innanzi, nelle aule della Camilluccia.
Quei giovani, che mediamente avevano una decina d’anni più di me e che potevano, quasi tutti, già votare, erano lì accuditi da Gilberto De Nitto e da mons. (“don”) Angelo Catarozzolo, quest’ultimo presente in veste di guida spirituale.
Un giovane, tra gli altri, tale Fabiano Amati, già si distingueva per l’arguzia, l’assiduità e, talvolta, per l’impertinenza (pur sempre garbata) dei suoi interventi.
Fu lì che conobbi Peppino Giacovazzo.
Fui attratto dallo stile e dall’eleganza asciutta del suo eloquio, dalla versatilità argomentativa, dai toni lontani anni luce dallo stereotipo del meridionale ringhioso o del meridionalista singhiozzante.
Mi colpì, in particolare, della sua relazione, il fatto che rispondesse ad interrogativi, ad “inquietudini politiche” che io - studente del liceo scientifico - avevo dentro ma che mai avevo espresso a voce.
Compresi che i “moderati” non sono tali per un freno alla passione, o per una bassa soglia di contenuti, ma per forma espressiva, per propensione convinta, oltre ogni ostacolo, al coinvolgimento partecipativo di qualsiasi interlocutore.
E capii che si può essere “conservatori”, del meglio, senza imbarazzarsi.
E capii pure che le decisioni più coraggiose sono quelle di rimanere seduti ai tavoli, magari proprio quando si deve resistere all’impulso di buttarli in aria, quei tavoli.
Colsi anche un messaggio, che quell’uomo dai capelli brizzolati si portava dietro sin da quando, nel 1951, ebbe l’opportunità di intervistare, a Matera, Alcide De Gasperi. «Presidente - fu la domanda rivolta allo statista democristiano mentre stazionava commosso di fronte all’umanità povera e dignitosa che, a quel tempo, abitava i Sassi - quando un giovane può dire di avere la passione per la politica?». «Quando - fu la risposta - sente il piacere di risolvere i problemi degli altri».
Giacovazzo è stato giornalista della carta stampata (anche direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”) e televisivo (in Rai), scrittore apprezzato ed instancabile, senatore ed onorevole della Repubblica Italiana, sottosegretario agli Esteri nei governi Amato e Ciampi.
Lo potei votare alla sua ultima candidatura al Parlamento italiano, nel 1994, quando era segretario regionale del Partito Popolare Italiano (mio padre - di quel Partito che, insieme all’ormai esigua eredità elettorale, aveva raccolto l’impegnativo bagaglio esistenziale della Democrazia Cristiana - nel frattempo ne era il segretario cittadino a Latiano) e si candidava quindi con il “Patto per l’Italia” siglato da Mino Martinazzoli e da Mariotto Segni.
Ho sempre letto con attenzione e vivo interesse gli articoli di Peppino Giacovazzo sulla Gazzetta, fino all’ultimo, pubblicato lo scorso 7 settembre: lezioni di scrittura, anzitutto, ma anche testimonianza viva di una capacità di portarsi sempre dietro tutto, armonizzandolo ed arricchendo (non appesantendo) ogni cosa con l’esperienza fatta, con il vissuto, dell’altra; è stato un giornalista – narratore, che ha saputo raccontare alternando fatti ed introspezione psicologica.
Il suo “Paese vivrai”, il periodico di Locorotondo (la sua città), nel titolo della testata esorta ad un futuro, possibile per le comunità locali finché non si volteranno le spalle alla loro storia ed alla loro cultura: per Giacovazzo, quella del trullo (come esperienza antropologica e come paesaggio dell’anima), delle pietre dei muretti a secco, degli ulivi enigmatici e del mare, laggiù all’orizzonte.